Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, settembre 30, 2011

Il perfezionismo di Rudolf Buchbinder

Rudolf Buchbinder è immerso nella vita musicale dai primi anni cinquanta del Novecento, quando – enfant prodige – fu ammesso a cinque anni (il più giovane allievo di tutti i tempi) alla Musikhochschule di Vienna. E sessant’anni dopo questo interprete tradizionalista e intraprendente ha ancora le riserve di energia fisica e spirituale che occorrono per eseguire in un’unica serata (in veste di direttore e di solista) i Concerti per pianoforte di Brahms. La sua conversazione è focosa: non è certo uno di quei pianisti che sanno parlare esclusivamente del loro repertorio e del loro strumento.
Buchbinder è un ottimo conoscitore della letteratura mitteleuropea e un esperto di arti figurative che durante le rare vacanze si dedica volentieri alla pittura. Le sue considerazioni sulla vita musicale sono quelle di un artista pienamente calato nella propria epoca ma preoccupato per quella perdita di memoria che affligge il mondo musicale di oggi.

Che cosa significa per Lei essere un artista in questo particolare momento storico? E che cosa significa essere un artista in senso più ampio?
Partirò da un aspetto che potrebbe sembrare a prima vista marginale, ma che in realtà è di fondamentale importanza: non lascio passare uno solo dei miei concerti senza intrattenermi dopo la performance con il pubblico che me lo richiede, per la firma degli autografi, o semplicemente per scambiare un’opinione sulla musica eseguita, o ancora meglio, solo per un sorriso o una stretta di mano. Inizio da questo dettaglio per spiegare il mio concetto di tradizione e di missione, con poche parole: le cattive tradizioni vanno abolite, distrutte. Le buone tradizioni vanno tenute in vita, adattandole al passare del tempo e al mutare delle condizioni sociali, politiche, culturali. In questo senso più ampio va intesa la professione, il fare artistico, che è una missione ricca di centinaia di anni di storia in trasformazione continua e ininterrotta, nella quale i cambiamenti si innestano con naturalezza.
Essere un artista significa per me innanzitutto essere un interprete. Non metto certo in secondo piano il versante tecnico: senza quello non esisterebbe l’interpretazione.
Lo studio è una condizione imprescindibile per l’esistenza di un pianista. L’esercizio quotidiano è un compagno di viaggio dell’intera vita del pianista. Tuttavia essere artista presuppone un salto di qualità, entrare nel vivo della musica, comprendere i compositori, confrontarsi con ciò che hanno scritto, eventualmente fino a trasfigurarlo. Abbiamo documenti di Stravinski che attestano come egli stesso cambiasse la sua musica dopo il confronto con gli esecutori.
Come sono mutate le dinamiche del Suo lavoro?
I mutamenti sono vastissimi, e sono di due categorie ben distinte: potremmo definirle interne ed esterne. Innanzitutto quelle interne: è cambiato completamente il metodo di avvicinarsi agli studi, all’acquisizione della tecnica, e di conseguenza è mutato il gusto esecutivo. Io non giudico, non categorizzo, non pretendo di dire ciò che è meglio o peggio: constato solamente che ci si avvicina a un compositore, magari studiandolo a fondo, ma talvolta senza entrare nel suo mondo, nella sua storia, senza valutare i motivi che hanno condotto la sua estetica a prendere una certa direzione. Noto talora che i giovani pianisti sono tecnicamente inappuntabili, ma portano al pubblico note magnificamente suonate senza far arrivare agli ascoltatori la cultura che le ha generate, l’epoca dalla quale i capolavori sono usciti. Io invece sono molto legato alla necessità di approfondire la conoscenza delle fonti. Per amore delle sonate di Beethoven, ho acquisito circa venti edizioni differenti della raccolta completa. Per passione ho poi collezionato un gran numero di manoscritti, di autografi, di prime edizioni. Anche dei Concerti per pianoforte e orchestra di Brahms possiedo le copie anastatiche dei manoscritti. Oggi la professione si è trasformata in una
corsa al concerto, talora senza comprendere la differenza tra evento e interpretazione. Molti pianisti si sono trasformati in uomo-evento, e questo è un cambiamento evidente, sotto gli occhi di tutti.
Per quanto riguarda i mutamenti che abbiamo definito come «esterni», si può ben cogliere il fatto che la musica d’arte non è più sotto i riflettori come un tempo. Qualche decennio fa i giornali, i quotidiani come le riviste, avevano il critico musicale, l’inviato a teatro per le «prime», e a volte anche lo storico che introduceva e spiegava l’opera. In televisione c’erano molti più concerti, i telegiornali parlavano dei musicisti come oggi parlano dei protagonisti della vita sportiva. Tutto questo non esiste più, e ovviamente condiziona la percezione del pubblico. Una grandissima differenza rispetto al passato riguarda la professione di pianista in relazione alle case discografiche. Un tempo il pianista veniva quasi «adottato» da una casa discografica, che lo seguiva lungo tutta la sua carriera, con un vantaggio enorme: quello di poter programmare il suo repertorio anche in funzione dell’eredità discografica. Tutto ciò costringeva in un certo senso l’artista a delineare un percorso, a scegliere i «suoi» compositori.
L’identificazione fra pianista e casa discografica poteva essere addirittura totale o quasi, come dimostra il caso di Glenn Gould e la CBS. Questo elemento ci porta alla considerazione forse più importante: il pianista del passato poteva pensare in proiezione alla sua carriera e al suo percorso estetico, lentamente, senza scossoni. Riassumendo, la carriera del pianista del passato era rivolta alla costruzione di un futuro, quella del pianista di oggi guarda essenzialmente al presente.
La più grande fortuna della mia carriera è stata quella di poter costruire il mio percorso con serenità, mettendo assieme le tessere di un mosaico ideale per cinquant’anni, senza affanni
e senza rincorse, con l’unica idea di migliorare.
Qual'è il destino dei più giovani che si avvicinano alla musica colta e in particolare al pianoforte?
Penso che il problema fondamentale per il mondo della musica colta sia attualmente quello di trovare una soluzione che permetta ai giovani e anche ai più piccoli di avvicinarsi in modo naturale all’arte. Ripeto, è lo snodo vitale per la trasmissione della nostra cultura musicale, ed è una questione che viene quasi totalmente accantonata dalle istituzioni della quasi totalità dell’Occidente. Io ho la fortuna di attraversare il mondo suonando, e da questa posizione di osservatore per così dire privilegiato devo dire che – dal Musikverein di Vienna fino alla sala da concerto più sperduta in Islanda – quando durante un concerto mi volgo al pubblico, o mi inchino per ricevere gli applausi, vedo sempre meno giovani tra le file. Ci sono certo delle eccezioni, dovute alla lungimiranza non tanto dei governi ma delle orchestre e dei teatri: direttori come Zubin Mehta e Nikolaus Harnoncourt fanno sì che vengano messi a disposizione biglietti economici per i ragazzi. Anche nel Festival di Grafenegg, che ho fondato e che dirigo, quello dell’accesso privilegiato ai giovani è un aspetto fondamentale. Purtroppo noto che in Italia questo atteggiamento è meno frequente, con pochissime eccezioni, rappresentate dal Teatro alla Scala e soprattutto dalla Filarmonica della Scala, che apre le prove alle scuole, gratuitamente.
Poi c’è un altro problema da affrontare, quello della crisi economica.
Se il prezzo di un biglietto per un concerto o per un’opera è assolutamente al di fuori della portata di un operaio o di un insegnante, figuriamoci come può uno studente accedere alle sale da concerto. Inoltre il sistema scolastico è oggi orribile, perfino in Austria, dove le scuole sono carenti in numero e in qualità. La situazione nel vostro paese non è migliore, ma finchè non si prenderanno delle decisioni serie e definitive a livello politico sicuramente sarà improbabile un miglioramento. Sarebbe inoltre necessario far capire ai politici la differenza tra istruzione e cultura; la prima non serve a nulla senza la seconda, e i governi dovrebbero investire maggiormente in tutti e due i campi.
Quali sono i Suoi impegni piu` coinvolgenti attualmente?
L’entusiasmo maggiore deriva dal mio carattere di perfezionista: come il grandissimo Claudio Arrau, vorrei arrivare dopo cinquant’anni di carriera al massimo delle mie possibilità. Migliorare continuamente è la mia fonte principale di energia ed entusiasmo. Come direttore e solista, dopo aver affrontato tutti e cinque i Concerti di Beethoven con i Wiener, il mio coinvolgimento maggiore in questo momento è diretto all’esecuzione dei due Concerti di Brahms che preparo con la Tonhalle Orchester Zürich; li suoniamo nella stessa serata, come abbiamo già fatto a Vienna e al Brucknerfest di Linz.
Ma tutta la mia vita come pianista mi coinvolge completamente, nello spirito e nella quotidianità: programmare il futuro significa avere l’opportunità di poter proporre al pubblico i propri sogni.
Fonte di enorme soddisfazione è per me la nomina a «Capell-Virtuoso», un incarico creato per me dalla Staatskapelle Dresden come artista residente: con questa magnifica compagine suonerò sia in tourné negli Stati Uniti che presso la Semperoper. Sempre nell’ottica di affinare le mie scelte estetiche, ripropongo il ciclo integrale delle sonate per pianoforte di Beethoven, che eseguirò – tra l’altro – anche al Mariinsky. Non mi dispiacerebbe riproporre, dopo tanti anni di distanza dalla mia incisione discografica, questo ciclo fondamentale in compact disc.
Qual'è appunto il Suo rapporto con il disco? Dopo averne registrati più di cento, c’è ancora qualcosa che sogna di incidere, o un ciclo che desidera realizzare?
Sta per essere pubblicato il live dei due Concerti per pianoforte di Brahms realizzato con la Israel Philharmonic Orchestra diretta da Mehta. Un ciclo completo di Beethoven mi permetterebbe poi di realizzare un confronto fra il me stesso odierno e il me stesso di venti anni addietro. Non aggiungo altro tuttavia, proprio perchè i sogni sono belli ma privati, e non nascondo un certo grado di scaramanzia, misto anche alla mia naturale riservatezza. Certamente guardando al mio passato posso dire di aver avuto la fortuna di realizzare progetti fondamentali per la mia crescita, come l’incisione completa dei Concerti per pianoforte e orchestra di Mozart, di tutte le sonate di Haydn, dei Concerti di Beethoven, ma anche di progetti più originali come il ciclo delle Variazioni Diabelli, in cui ho affrontato le lezioni di più di cinquanta autori differenti che si sono cimentati sul celebre tema. Posso solo aggiungere che ultimamente prediligo le registrazioni dal vivo, per la loro naturalezza, ma anche per la forza e l’energia che emanano.
In veste di fondatore e direttore artistico del Grafenegg Festival può raccontarci qualcosa su questa esperienza?
Per mia natura sono un perfezionista, e ho cercato di cogliere il meglio, selezionandolo, dai festival più affermati e consolidati a livello mondiale, come il Festival di Salisburgo, di cui sono ospite abituale. Ho cercato di trasmettere tutta la mia personalità e le mie idee a questo festival, cercando soprattutto di evitare gli errori compiuti da altri, che sono sotto gli occhi di tutti. Spesso capita che i fondatori di Festival, se sono anche esecutori, desiderino essere anche le celebrità della manifestazione, togliendo spazio agli altri. Decisamente non è il mio caso: le mie apparizioni sono molto limitate, un recital solistico e un concerto con orchestra, e quest’anno sarò lieto di interpretare il Primo Concerto di Brahms con la Israel Philharmonic e Mehta. Come direttore artistico sono orgoglioso di poter dire che sono lontano mille miglia dal sistema clientelare che purtroppo vige in molte manifestazioni, sistema che io detesto.
Nel mio Festival non sono invitati solo gli amici degli amici, o i protetti di qualche potente agenzia: a Grafenegg lo scambio culturale si svolge soprattutto all’insegna del confronto fra scuole e stili. Io invito artisti interessanti, che possono trasmettere il senso dell’arte al pubblico, offrendo repertori variegati, dal barocco al ventesimo secolo, senza preclusioni.
Soprattutto non invito solo artisti che io amo; mi sforzo di invitare anche interpreti che io personalmente non apprezzo, ma che possono coinvolgere il mio pubblico. Il mio gusto non è importante, io devo assemblare il miglior cartellone possibile.

Mario Marcarini (Musica, n.227, giugno 2011)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Che bella quest'intervista! Grazie per averla riportata. Andrò a sentire domani Buchbinder e sono molto curiosa.
Maria